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poesia italiana e varia letteratura a cura di Conversazione0

I corti

IL VASAIO

 

I capi dei sacerdoti, raccolte le monete, dissero: “Non è lecito metterle nel tesoro, perché sono prezzo di sangue”. Tenuto consiglio, comprarono con esse il “Campo del vasaio” per la sepoltura degli stranieri. “ (Matteo 27, 6-7)

 

E quando de nocte tu poni mano ove la tua donna si fa dolce e fra dita tu tieni tutta la nascita del mondo da lo umido come la erba e ‘l fungo che ne l’umido e caldo co rigoglio nasce, cresce, sviluppa e figlia, come de nocte gli è quando metti le mani ne la terra per trarne forme come ne la donna per trarne figlioj. Sì dolce al tatto ‘esto mestiere che si fa di mano e di picciolo strumento ed è sì fatto che tu hai davante la terra come se coglio da lo munno e se mette su la rota e la s’ammolla co’ la aqua da farla tanto molle che tu la puoi conformare a tuo desiderio e piacimento.

 

Non così è la donna de nocte che tu no la conformi ma lei conforma te a le sue voglie tanto che non te ne pigli stanchezza e sonno come di stromento rotto.

 

Ma ne lo mestiere del vasaio gli è come se tu la potessi conformare alla voglia tua e trarne un vuoto più o meno ampio come tu desideri e così lo ventre panciuto tanto o di poco spazio da trarne da pozzo di molta o di scarsa agua. E così tu scegli se la bocca de lo vaso da la terra s’abbia ad esser ampia o stretta et ogne concavità a piacer tuo ed ogne vaso secondo necessitate. Ve ne sono di quelli che s’adoprano pe’ la tavola, piccioli co’ manici da tenere pe’ le due mani e co’ uno solo manico ritorto da oprar co’ una sola mano. E vi so’ di quelli vasi da attigner lo pozzo o a fiume che talune femminette all’uso orientale trasportano in sul capo. E vi so’ di quelli orci di grossi da intrarci drento il cristiano co’ tutte l’ossa. Et ivi getti dentro di tutti i liquidi; la agua o lo vino e lo olio di che usare a piacciamento tuo et altrui. E così co’ li vasi tutti li voti e tutti li pertusi tu scegli e decidi a piacciamento ché la terra di cui so’ fatti permette. Per che la terra sempre se puote conformare e qui ci fai palazzo et ivi piazza e sopra a quella terra mercato o mercanteria o pur lo campo che lo grano getta. E sempre la terra è bagnata alla man dell’omo. Mai la donna che tu no’ poi mai decider li sua voti né di tanto né di quanto deano esser ampi né di tanto né di quanto i pertusi stretti e la dei pigliare com’ella è – se la ti garba.

 

Solo per che è generatrice la donna somilia alla terra in ispecie alla greta che sta ne la man de lo vasaio per esser conformata. Niuna donna è poter de lo vasaio ma di quello de Deo – se si dee creder all’orar de li clerici. Sì che l’omo è il vaso da la terra ne la man de Deo ch’é ‘l più grande e maggior vasaio che si cognosca essendo il vasaio de lo universo criato che fa li voti e li pleni de li omini e li pertusi e si manici da du’ mani oprare o una man sola. El più grande vasaio de lo universo poi che modella l’omini e le donne come io la greta che poi si coce e grande utilitade reca che contiene lo liquido anche pe’ l’anima – ch’é lo vino.

 

Lo vasaio ha questo di similianza de Deo; che a suo piacer fa li pleni e li voti, li manici e li pertusi.

 

Come l’omini li vasi hanno breve vita e loro destino è tornare in terra come terra erano e tutti li cocci cotti e rotti che le massaie riportano o ‘l garzone va alla magione a pigliare tutti finiscono ne lo posto medesmo da indove so’ venuti: nel campo del vasaio.


 

LA MUGNAIA

 

Sallo lo munno che chi a molino vae tanto lolla che farina trae. Tanto di polva è la vita de la mugnaia et de qualunche omo o donna c’egli viva – qualunche vita. Et qui è di bianco vestito qualunche s’adagia, s’aspetti macina a torre o rechi grano a macinare. Se tu pensi che li visi de le signore, ne la cittade, bianchi similemente ma tratti di biacca et altre diavolerie si sia, lo riso smorca da che le signore spendano danai nel bianco e, nel medesimo bianco, le mugnaie fanno spendere altrui! Per lo vero, ove la chiarità fittizia de la pelle delle donne fia grande bellezza, la mugnaia fia fra le tutte quante la più bellissima che non costuma di trucchi et inganni ma de la più divina de le manne che lo Dio dona all’omo – e tale manna è lo grano e la farina che se ne trae.

 

Se tu poi vuo’ saper el motivo di che allo bindolo vi stia l’asino anzi che mulo o bove, dicerolti con l’osservare la natura de li omini e de le bestie. Però che lo mulo gli è testardo et alle volte si punta e non sé vuol piue movere di girare a tondo e non si sa motivo poi che ello non sa contarlo essendo privato di favella. Come cert’omini che s’appuntano di non fare certe faccende loro né ne dicono alcunché motivo quasi essi stessi puro fossero di favella privi. Lo vero è che l’omo che s’appunta non conta non già poiché contar non sappia o non possa ma poiché lo si vergogna e vergognando tace. Sì che tali uni sono come lo mulo loro che lor carro trae al molino colmo di grano per farne farina e s’appuntano nell’attesa della macina et in tale attesa si divagano et tutto lo jorno stanno in appuntare – or mirando lo bindolo che gira sulla macina come la lor mente intorno a niente, or mirando certe sottane di tanta polve di bianchezza.

 

Lo bove è tale in vece di colui che non sa dare la volta ai passi e sempre dirizzando vanne e per farlo girare a mo’ che il bindolo abbia funzione sopra la macina sempre il mugnaio con la verghetta lo stimoli dimolto sul davanti. Poi ché ottimo è il bove supra lo campo per l’arare – ché diritto il solco s’ha da fare – similmente vano è al bindolo che ha da girare.

 

Poi non si sa de lo intendimento de le bestie, se mulo e bove intendano che tutto quello girare a loro pare a voto da che non vedono l’utile di tutto quello girare e faticare per movere una rota di che non vedano la fine, lo scopo. Per lo vero m’appare che mulo e bove sieno troppo filosofi et di fino intelletto da farsi domande su lo utile del loro caminar fatigando e per di più tutto in tondo ne lo quale non vi è principio di partenza né fine di arrivo.

 

Per me meglio è lo asino da che non fa filosofia sopra a la fatica e all’infinito de lo cerchio e non s’ha dubbio sopra la sua vita che quando è vecchia e non più bona da lavoro finisce ne la pentola sul foco e si condisce la polenda. Meglio è lo asino che non s’appunta e volta anche quando va diritto perché legato a stanga di bindolo e lui crede sé andare retto e niente s’appunta e niente si lamenta e niente verga l’abbisogna: solo l’avena da magnare e la agua da bevere. Santo animale l’asino, punto filosofo e tutto bianco di polva che niente cura di grano che non ha misura né di lolla che ne fa mistura per lo suo e nostro poero campare.

 

 


 

 

 

LA MOGLIE DEL FABBRO

 

 

In esta magione la aqua no dee mai mancare, sia supra che sutta, sia per la ripulitura dei corpi anneriti di sera quando la fatica della fùcina termina, sia per lo freddamento de lo ferro che lo martello compone per la forma di spada o picca o lancia ot oltr’armatura.

Lo mio sposo è enfacto magnifico manifactore de esta manifactura de ferro et foco che sé torre di casa anzi che lo velo de cielo si schiari et ne torna ben poscia l’avvento notturno. Ver’è che non lunge ma sotto la casa tiene la buttiga et poco a longo lo forno indove lo lavorante co’ lo novo mantice inviva lo foco et crepita et soffia toto lo die finché la dura materia non fia piegata al volere de lo fabbro.

Pro tale cagione en esti dintorni sempre se ode de battere de martello, de soffiar lo foco, de cantar li lavoranti di che quest’ultimo è maggior romore. Tanto che ier non fu dimolto venne in buttiga uno molto ben vestito omo trattovi non da dovere far l’acquisto di lama o scudo ma dallo cantare che lo marito meo facea nello battere sulla incude un non so che ferro de caldo ammorvidito. Entratovi che fue, e lo meo marito smesso di cantare et martellare, per lo che lo ferro andava raffescando anche senza l’uso della aqua che in una tinozza gli era, meo marito smesso dal cantare e battere, lo pellegrino senza nulla annunciare dello suo volere si die’ di tratto a rumpere la buttiga et jettare in terra ogni tavolo et ogni attrezzo et ogni manufatto che vi trovaa. Per il che lo fabro, lassato ferro e martello e tinozza, si fece appresso a lui bociando che la smettesse e chiedendo che volesse. Per il che avea lassato lo battimento et lo cantare. Giuntoli in presso, che alzò le braccia grosse e maculare di fuliggine della qual cosa sempre abondante si ritrova e nella buttiga del fabbro et nella fùcina onde arde lo caldare e soffia lo mantice et anco nella magione onde la poera mugliera non ha agio da’ tòrla, alzate le grosse braccia fece per il trattenere il passeggere dallo ròmpare et abattere ogni cosa ch’elli trovasse. Allora il pellegrino fermossi e mirato lo marito meo nelli occhi fermamente et cum sonora voce, tanto ch’i’ la potei sentire dalla magione al pian de supra, lo pellegrin ne disse: “O fabbricere da’ villan fottuto, nello to martellar di fabro tu favelli a gran voce et grandissima dismelodia le parole de le mie canzoni, tanto che tu ne strupi e tu ne struggi et abbattile nella terra quasi che ‘nvece di parole fosser mura di castella presso cui grand’ordegni de distruzion jettan proietti. Ordegno è la toa favella sì che mal tollero dal to cantare possano intendersi mie parole. Per lo cui, tu struggi la lengua mia che lo meo strumento de lo meo mestiero è! Da cui io struggo la butiga toa et ogne stromento de lo tuo mestier di fabbro ch’io possa trovare. E questo prencipio de justitia è nomano in tartaria torre l’occhio per l’occhio et la mano per la mano come ne la scrittura anco si mira”.

Et esto detto, con ultima gran chiassata di tavolo che s’andaa a gambe nell’aria, lo pellegrino se ne fuggì per donde gli era entrato. E non vi fu piue cantare per quello jorno.

Gionto la sera che lo meo marito salse da la butiga in la magione e doppo che si fue lavato con due de li cinque secchie de aqua ch’io, da brava massaia, nella jornata avea portato, senza ch’i’ ‘l richiesi vergognando, elli stesso me contò: “Maria Maria, oggi passò de quie e jettomi pe’ la terra tutta la butiga Misser Dante fiorentin dell’Alighieri molto adontanto perch’io cantaa una soa canzonetta.”

Al quale io risposi: “Marito meo, nun ti crucciar che v’è di tale jente in lo mondo che canta e non li piace ch’altri canti seco o di sue cose. Per che, s’anche la parola fu la stessa, vedono che mala cangia se la bocia che la canta fia d’altrui”.

 

 

 


 

 

 

3 GIUGNO 1239

 

 

 

E a dì III di giugnio schurò el sole per sì fatto modo che non si vedeva lume; e i poli e gli animali andavano al polaio loro. E durò questa schurazione tre ore e cominciò a ora nona e durò quasi per insino a vespro. E molti strologi si maravigliaro per tanto durare la detta schurazione, la quale diseno che presto sarebe qualche grande fatto sopra la terra o mutamento di stato o morte di grande signore. E questo fu al tempo di Pietro Parenzi da Roma, potestà”

 

(Cronaca di anonimo senese)

 

NOTA: ore 6 = ora prima, ore 9 = ora terza, ore 12 = ora sesta, ore 15 = ora nona, vespro = sera, compieta = notte.

 

Grande maraviglia fu in Siena al 3 di giugnio anno Domini 1239 et segno nefasto et gran timore nelle case e nelle buttighe, prodigio e spavento che voglio raccontare a beneficio dei figlioli che verranno se potranno legere et scrivare. E forse non aranno più maraviglia di simili eventi ma sappino et imparino come fatto sia lo spavento e che questo giorno fue.
Infino a ora nona, la via di Galgaria fue animata come consuetudine di polli e donne e porci che ciacolavano ognuno a suo modo secondo sua propria lingua. L’omini nelle buttighe tagliavano e cucivano e martellavano bullette sui cuoi nelle buttighe e baccagliavano e cantavano e battevano i garzoni e i lavoranti. Sull’uscio ogni buttiga appese le pelli e sui banchi in mostra mercantia di calzoleria i quali barattavano e trattavano e mercanteggiavano a loro propria usanza e beneficio. E questo in somma era jorno come tutti altri jorni per la via.
Sonata l’ora sesta da gran tempo si vidde che lo jorno era pleno ma pur rivoto di luce piue di quanto fue ieri e di come da stagione doveasi intendere come quando nube da vento portata trascorre gravida di piova che lo jorno tutto se n’oscura.
Lo figliolo d’Adelmo a mezza costa s’affacciò alla buttiga con lo pane in mano a rimirar lo cielo se alcuna nube vi passasse e, non scorgendovene alcuna, s’affissò il guardo al sole e rimase immoto. Lo cominciarono a chiamare da drento e lui rintanando di corsa urlò di maraviglia che grave macchia apparia ne lo sole.
Risentito lo strepito tutti s’affacciorno, e chi di buttiga chi di casa rimirarono lo sole per breve tempo onde li sguardi non ne fusseno feriti. Tra cotali fui io stesso di sull’uscio di buttiga e vitti di breve come alla destra del sole il demonio n’avea magnata piccola fetta sì che lo disco era mancante d’uno spicchio come un quarto di luna di notte.
Allora grande strepito si levò e tutta la strada mosse romore, quale donna indicando il cielo dalla finestra, quale lavorante in disbrigo pose banchi e mercantia dentro buttiga. E si staccarono tutte le pelli e tutti i banchi furono ritirati. Le finestre si cominciorno a serrare.
Lo scuro aumentava e gettato l’occhio ogni tanto al sole vieppiù il morso del demonio s’accresceva e lo chiaro diminuiva. Li polli anzitempo tornarono per lo scuro nei pollai et i porci furono ricovrati senza tante bastonature che da sé capivano esser ora di notte da ritrarsi in casa loro. Un vento levorsi come di fresco nella sera in estate quando tramonta e lo tiepido della terra muta in frescura. Rimasero per la via alcuni coraggiosi che vieppiù commentando cercavano di capire dove e per che modo il demonio avesse agio avuto ad impadronirsi del cielo. Vari strepiti e dubbi si sparsero ma sempre in meno gente, sempre più sottovoce e niuno capiva perché le campane non suonassero a disgrazia fino a che non rimase nessuno nella strada e tutte le buttighe furono chiuse et inserrate così come le finestre della case e si fece gran silenzio.
La notte fu plena di stelle e tutto lo cielo però era quasi l’ora nona come fosse compieta.
Allora, inserrati a buttiga, noi in ginocchio si pregava e meco furono famili e un garzone che non aveo auto core di rimandarlo a casa che peggio li accadesse in quella gran disgrazia di Satana che avea magnato lo sole. Pregaimo io, la mea mogliera ch’era anco lei scesa a buttiga rinserrata, Ranuccio di Beppo garzone e Duccio il lavorante ch’era con me da gran tempo.
Per tutti i pertugi si vedevano lumi e pispigli d’orare in silenzio et in disperazione.
Sonò l’ora nona e tutti ristettero a udire le campane che batteano come jorno.
Come venne, la notte passò piano e prima un poco di lume come l’alba e poi qualche finestra si raprì e sentimmo vociare e qualche buttiga raprire. Io stesso accostai e, affacciato che fui, vidi il giorno risorgere come fosse ora prima e la via rianimarsi co’ strepido e maraviglia. Adelmo di mezzacosta chiamò lo suo figliolo e tutti che scendevano ne la via rimiravano lo sole bocconcellato che a morsi lenti ritornava. Fu gran festa di Dio ch’era restato indigesto a Satana e che non fu notte etterna. Allora tutti andammo a render gratia a Maria nostra avocata in cima della via e tutte le donne e tutti li omini et fanciulletti,
Rimasono alle buttighe i garzoni che alla lenta riapparecchiavano i banchi co’ la mercantia e riattaccavano le pelli et i cuoi alli usci per finire la jornata.
Polli e porci tornavano a ciacolare ma le donne ormai erano mute nella chiesa a espiazione dei peccati loro et in lode di Dio solo oravano.

 

 

 


 

 

 

LA FAMIGLIA

 

 

 

Minkia che figa! C’ha uno stacco coscia che mica ce la faccio con il fiato! Pure bionda tinta. Chissà se si depila. Pensa la libidine a pelo corto! Devo smettere di venire in questa palestra, c’è troppa gnocca. Devo pompare troppo per calmarmi. Non ce la faccio proprio di fisico, né di fiato né di muscoli. Però non ha l’anello, non è sposata. Ma figurati se me la dà a me. Capace se la tira come la corda di un arco.

 

-       Ciao, io sono Cristina

 

-       Ciao anche a te, io sono Chiara

 

-       Quanto c’hai con codesta panca?

 

-       Poco, mi manca due serie da dieci

 

-       Allora t’aspetto

 

-       Ti ghiacci

 

-       Macché! Sono a bollore: due minuti mi servono comunque per il fiato

 

Cristina un cazzo: stragalattica! Stracristinacristo!

 

 

 

L’ho baciata, cazzo! Sapeva di sprizzi ma soprattutto di fresco. Mi ci è stata alla grande. E c’avevo fatto tutti ‘sti problemi! La amo da morire. Cristina… come Cristo, divina come lui… Cristina… Cri… amore mio!!!

 

 

 

Sono passati vent’anni e ora abbiamo due figli. L’orfano di un amico. Schiattati tutti e due su una curva di Alessandria. E la sua sorellina somala. Il fatto è che Cristina se n’è uscita un giorno e dice: “a me mi piaci tanto, ti amo da morire ma vorrei dei figli come una famiglia”. A me mi fanno cacare i bambini, lontani lontani sono anche carini che giocano nel parco dove ci siamo scambiati baci, carezze, amori con Cristina. Fanno lo scivolo, l’altalena, hanno i cagnolini. Ecco, se un bambino fosse un cagnolino sarebbe proprio bellino. Ma poi crescono e rompono i coglioni come un martello rompe le noci di cocco. Sono martellanti i bambini

 

La amo, cazzo!, come una bestia, come un animale. Mi fa venire due, tre volte tutte le volte. Ha un profilo nella luce che mi pare un’opera d’arte, un vaso etrusco, una statua di marmo come il suo seno. Proviamo con questi figlioli.

 

 

 

-       Cristina, ho fame, porc@@@

 

-       Che ti va?

 

-       Il gelato alla fragola

 

 

 

La bambina è ancora troppo piccola ma parla come un adulto. In dialetto, cazzo. Negra com’è parla catanese. Il ragazzo è più maturo, comincia a essere parecchio indipendente; sta troppo fuori in giro coi suoi amichetti, tutti da riformatorio. Questa casa non è un albergo. Chissà se va a scuola. In settimana vado a parlare con i maestri. Lo sapevo io che quando crescono fanno girare i coglioni. Anche la bambina lo farà: ora no perché è troppo piccina, le basta un orsettino di peluche e darle da mangiare, poi è tranquilla. Certo, bacini e abbracci fa come quell’altro stronzo del suo fratello: non le bastano mai ma tanto piacciono anche a me, quindi pazienza, va bene così. Si fanno piano piano un’identità e me la faccio anche io.

 

Chissà se sono ancora quella Chiara della palestra d’una volta!