Scritto e detto Ragionamento su: “Un’altra gioventù” di Piero Fabbrini
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- Pubblicato Sabato, 10 Ottobre 2020 16:37
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Capitolo 1.
La prima cosa originale che troviamo nel racconto di Piero Fabbrini “Un’altra gioventù”[1] è questa: “ce n’avesse la gente le lire che porto a ‘asa io”. In italiano standard vuol dire, approssimativamente, “guadagno abbastanza”. Più precisamente significa qualcosa di questo genere: “ho uno stipendio non eccezionale ma talmente dignitoso da poter essere invidiato dalla gente”, più o meno. Il discorso diretto “ce n’avesse la gente le lire che porto a ‘asa io” è il primo che pronuncia il personaggio Muzio il quale è o pare, in prima approssimazione, almeno uno dei personaggi principali.
La prima osservazione da fare è che è una frase in vernacolo. La differenza fra dialetto e vernacolo è nota ma gioverà ricordare almeno una delle caratteristiche che li differenziano e che fa si che la frase di Muzio non possa essere considerata dialettale ma solo vernacolare: il vernacolo mantiene la struttura e la sintassi dell’italiano standard, il dialetto no. Entrambe però, sia il vernacolo che il dialetto, piegano la lingua sotto il profilo fonematico in modo da abbreviare, arricchire o, talvolta, ribaltare i significati. Nella piegatura fonematica ci sta quasi tutto: l’apocope, l’aferesi o la sincope per lo più ma anche il fenomeno della gorgia[2] che è tipicamente toscano. I personaggi che Piero Fabbrini mette in scena parlano perlopiù così e, nel racconto, il ricorso al discorso diretto è assai cospicuo. Perfino il dialetto lombardo, parlato dalle due sorelle Flora e Olimpia, è per così dire “vernacolarizzato” o trasfigurato fino a rendere il lombardo con singole parole piuttosto che con la costruzione della frase come sarebbe naturale. Di più: il milanese è talmente toscanizzato che lo si intende come milanese solo dall’uso di alcune parole poco frequenti o addirittura inesistenti in toscano perché, per il restante, è reso con le medesime caratteristiche vernacolari del toscano (le già citate tecniche di apocope, aferesi e sincope).
L’uso del vernacolo che fa Piero Fabbrini non è gratuito. C’è certo del compiacimento perché, essendo toscano, la lingua più naturale e congeniale all’autore è sicuramente appunto il vernacolo. C’è anche una ragione strutturale del racconto ed è quella di rendere sia l’ambientazione con una marcata caratteristica regionale sia l’ambiente familiare, ossia la dimensione più intima del parlato, dei protagonisti. Fin qui sarebbe ancora quasi tutto regolare e non originale, sennonché c’è un’altra ragione, che considero principale e fondamentale, per l’uso del vernacolo: ed è la valenza espressiva.
Il vernacolo aggiunge un surplus di significato alla narrazione proprio grazie allo scarto[3] che si produce fra vernacolo e lingua standard. Di più: abbrevia di gran lunga la narrazione. Il vernacolo comprime in poche parole significati che, in lingua standard, potrebbero essere detti solo con giri di frasi più o meno complesse. Naturalmente, in questa compressione, si perde in chiarezza ma si guadagna in leggerezza. La prima frase di Muzio (“ce n’avesse la gente le lire che porto a ‘asa io”) produce una risonanza di sfumature di senso fra l’ironico, il canzonatorio e l’orgoglioso autocelebrativo: sfumature di senso, insomma, che è difficile persino rendere più chiare e per questo le chiamo “risonanze” che non sono solo risonanze emotive o, comunque, non principalmente; sono risonanze semantiche, catene di significati. È la struttura stessa della lingua che qui si esprime, la sua molteplicità ed articolazione dei significati, il suo stesso valore d’uso. È per questo che esistono le lingue.
Nell’uso del vernacolo che ne fa Piero Fabbrini, però, c’è un difetto: non pone attenzione all’accentazione delle parole. Faccio solo l’esempio della famosa “c” che i toscani si mangiano. Intanto gli esiti della gorgia possono essere di due tipi: la soppressione totale o l’aspirazione delle consonanti. Permanenza, aspirazione o soppressione dipendono appunto dalla disposizione degli accenti nella frase. Ad esempio: “guarda la casa” diventa “guarda la hasa” (aspirazione) o “guarda la ‘asa” (soppressione). (Soppressione o aspirazione sono varianti locali.) Questo accade perché l’accento cade sulla prima “a” di "guarda" mentre la seconda “a” rimane atona e così anche la “a” dell’articolo. Il raddolcimento, o la soppressione, della “c” rende possibile l’elisione in modo da creare l’andamento giambico della frase. Viceversa “guarda a casa tua” resta invariato perché l’elisione avviene con la sillaba precedente, il che consente, ancora una volta, di mantenere l’andamento giambico. In pratica, in presenza dell’articolo determinativo (femminile o neutro) fa cadere la consonante mentre l’articolo indeterminativo no. Nella frase di Muzio “ce n’avesse la gente le lire che porto a ‘asa io” la soppressione della “c” è quindi impossibile nel parlato. Mentre invece è corretta, e sacrosanta, l’elisione in “ce n’avesse” che contiene un accento secondario nel “ce” di inizio frase e, quindi, conserva il ritmo giambico. È chiaro che questa “regola del ritmo giambico” non è assoluta ma vale solo là dove sono possibili i fenomeni di gorgia. Per esempio “la gente” non può essere più addolcita di così né, tantomeno, soppressa perché, in quest’ultimo caso, si presenterebbe una ambiguità con “ ‘ente” impossibile da risolvere (perché la parola potrebbe essere “niente” o “mente” o “sente” eccetera). Però il toscano incorre nel rischio del raddolcimento eccessivo tanto che si possono presentare errori di scrittura come “giente” (la trascrizione più propria sarebbe “gjente” con la “i” palatizzata o, addirittura, “jente” con pronuncia di “j” come nel francese).
Al di là, però, delle disattenzioni prosodiche, frequenti ma non costanti nel racconto di Piero Fabbrini, l’uso del vernacolo nella narrazione è quantomai interessante ed originale. Che sia interessante l’ho appena mostrato; perché apre uno spazio di riflessione ed azione linguistica fin qui inesplorato e da perseguire infallantemente in funzione espressiva ed espressionistica. Che sia originale lo mostra la considerazione che esiste molta letteratura dialettale ma ben poca letteratura vernacolare[4]. Tuttavia, per gli esiti espressionistici che produce, è una tecnica da esplorare ulteriormente e largamente.
[1] Nuova immagine editrice, Siena 2020
[2] Riguarda le consonanti occlusive sorde scempie “k”, “t” e “p”, le relative sonore “g”, “d” e “b” e le affricate postalveolari “d͡ʒ” e “t͡ʃ” (approssimativamente la “gi” e la “ci” dolci).
[3] Rimandiamo la discussione sul dispositivo dello “straniamento” alla parte 3 del presente saggio.
[4] In effetti mi viene in mente solo Giuseppe Giusti o i testi del “Vernacoliere” di Livorno che, però, è una pubblicazione apposita e specifica, come mostra il titolo stesso della rivista.
Capitolo 2.
L’altra cosa sorprendente di questo racconto è che l’apparenza inganna sempre. TUTTA l’apparenza inganna. Fin dal titolo: “Un’altra gioventù” sembra un titolo nostalgico, vista l’apparente collocazione storica, ma non lo è. Cioè, lo è il titolo ma non si troverà, all’interno del racconto, accenno di nostalgia o il richiamo all’idea che “si stava meglio quando si stava peggio”, anzi. La narrazione è pervasa da elementi violenti e luttuosi (guerre e morti) che rendono tutt’altro che appetibile quella gioventù lì della quale si racconta.
La “gioventù” del titolo è “un’altra” perché è “diversa”; diversa da cosa? Non solo diversa dalla gioventù attuale, di cui veramente si sa ben poco dal momento che la contemporaneità è assai difficile da pensare, ma diversa anche da ogni altra gioventù (compresa quella dell’autore stesso). Piero Fabbrini conosce e ri-conosce almeno quella diversità.
Il titolo è un trucco al quale l’autore ricorre per produrre la (falsa) idea della nostalgia essendo strutturato a partire dal calco fonico de “La meglio gioventù”[1] di Pier Paolo Pasolini. Entrambi i titoli sono infatti settenari tronchi con accento tonico maggiore sulla seconda sillaba: appunto, un calco fonico. È proprio l’eco del titolo che, per associazione, evoca il senso nostalgico e mitico di “quella” gioventù: i giovani pasoliniani e quelli fabbriniani sono infatti coevi ma ben diverso e, per certi versi opposto, è il significato di “quelle” due gioventù. Quello che marca la differenza è il contenuto delle due opere: in versi l’uno, in prosa l’altro ma entrambi accomunati dallo scarto linguistico rispetto alla lingua standard nel ricorso al dialetto e al vernacolo.
Il titolo è l’equivalente della “civetta” dei giornali: serve per farli vendere. Lo stesso è per il titolo del libro: è ingannevole, pubblicitario e tranquillizzante perché lo colloca (apparentemente) in un àmbito narrativo tradizionale. Se ne vuol nascondere l’originalità perché il contesto in cui viviamo è conservatore: il nuovo spaventa sempre. Produciamo, più o meno inconsapevolmente, degli anticorpi contro la novità: è una reazione alla paura, che è il sentimento predominante nella società in cui viviamo. Facciamo censura su noi stessi, in termini psicologici si direbbe “rimozione”, per esorcizzare la paura del presente. Piero Fabbrini aggira questa paura e questa censura, evita le opposizioni conservatrici mettendo in campo – nel titolo – un bluff. In questo senso esprime una posizione fortemente antifascista, almeno nel senso in cui censura, paura, conservazione eccetera hanno connotazioni di destra che, in Italia, hanno quasi sempre connotazioni fasciste o, quantomeno, autoritarie e totalitarie.
Il bluff del titolo lo si scopre nel corpo dell’opera: vedremo come.
La seconda cosa ingannevole è la genealogia messa all’inizio del racconto. APPARENTEMENTE ha una connotazione informativa. Però l’informazione è assai limitata, come lo è l’elenco dei personaggi all’inizio di un romanzo giallo. Messa in quel punto iniziale, la genealogia non ha la possibilità di essere collegata a niente e quindi la sua portata informativa risulta comunque assai limitata. Però produce l’altra falsa impressione che il racconto sia una biografia familiare, come se l’attenzione si concentrasse sulla famiglia, come se si raccontasse la storia di una famiglia attraverso tre generazioni (che sono quelle indicate nella genealogia). Può perfino darsi che l’autore abbia avuto l’intenzione di farlo: il fatto è che non gli è riuscito, per fortuna.
In realtà, la genealogia è una chiave di lettura: attraverso i collegamenti genealogici non si fa altro che tracciare un percorso di lettura. La genealogia è una mappa, una specie di bussola per orientarsi nel racconto ma è una cosa che il lettore non può sapere subito.
Il fatto è che il racconto di Piero Fabbrini è non solo pieno di personaggi ma perfino intessuto di essi. Certamente, la famiglia c’è ma è solo la trama che lega insieme gli altri personaggi ma, più ancora, i loro eventi come nel tessuto di un arazzo. La famiglia, di cui non sappiamo il cognome fino a pagina 86, è una presenza costante ma non completamente definita. In realtà è una famiglia estesa, formata da una sommatoria di famiglie cellulari: c’è la famiglia di Muzio e Zara (di cui sappiamo il cognome, “Mancini”, a pagina 86), quella di Eugenio e Carolina e, infine, quelle dei loro figli Olimpia e Pietro, Flora e Amleto solo per parlare delle diramazioni più evidenti ma sono solo alcune delle pennellate che l’autore traccia a comporre il proprio quadro.
Il racconto è costruito come un quadro espressionista o, appunto, un arazzo, a nette pennellate più o meno grandi. La prima pennellata è quella di Muzio, con il cui “arrosto girato” si apre il racconto. I primi capoversi raccontano il rito dell’arrosto girato, è focalizzato l’atto non il personaggio. Ora, io non so se quel rito domenicale fosse o meno tipico e diffuso in una Toscana caratterizzata da un ceto sociale e da un periodo; quello che so è che quel rito domenicale lo faceva anche il mio babbo ed io stesso ne ho distinti ricordo risalenti alla fine degli anni ’60[2]. Dopodiché, è certo che le azioni definiscono i personaggi che non sono praticamente mai descritti ma sempre narrati appunto attraverso i loro atti e le loro azioni. La narrazione descrive la persona, come nel principio marxista per cui gli uomini sono le azioni che compiono[3]. Queste micronarrazioni intessono la tela dell’arazzo, sono le pennellate del quadro impressionista che Piero Fabbrini vien tracciando.
Se lo guardate da vicino appariranno forse solo le macchie di colore, ma se appena vi discostate un po’ si può distinguere la figura definita.
A tracciare la trama, il racconto è tutto intessuto di “esplosioni”. Ad esempio:
“Ora però c’era una novità: le due nipoti figlie della sorella di Muzio erano venute a vivere con gli zii.
Italia, la sorella di Muzio, era venuta a mancare già da oltre due anni e adesso era morto anche suo marito Mario.” (pagina 19)
Fra il primo ed il secondo capoverso c’è l’esplosione. L’autore menziona un fatto e, da quella menzione, BAM! si espande, dà ragione di quel fatto, apre un’altra narrazione su altri personaggi e poi altri ancora, come nelle scatole cinesi. Certamente, non tutti i personaggi su cui si aprono le scatole cinesi sono narrati (sottolineiamo NON descritti) con dovizia ma solo per quello che basta a darne ragione delle caratteristiche salienti e dei loro legami con le vicende familiari che rimangono il filo conduttore portante, il fiume al quale affluiscono gli affluenti. Nello scorrere del fiume narrativo, che poi è lo stesso scorrere del tempo storico come vedremo nel prossimo capitolo, via via che si incontrano gli affluenti essi vengono esplorati, ci si inoltra più o meno a lungo nello svolgersi del loro percorso.
Ci sono affluenti che vengono seguiti più a lungo di altri e che, pertanto, rimangono più in mente: ad esempio l’episodio di Elena la Statua. Ma ci sono anche rigagnoli di cui si accenna appena come Vincenzinu o i molteplici personaggi anonimi (uno per tutti quel “qualcuno” di pagina 159 di “quando incrociava qualcuno e lo salutava, i più nemmeno rispondevano e chi ricambiava il saluto lo faceva in modo automatico e frettoloso”).
Le scatole cinese a volte sono solo una a volte, come le matrjoske, molteplici ma nessun filo viene lasciato penzoloni, nessuna storia è inconclusa.
Questo fitto tessuto di trame narrative non è per niente usuale nella narrativa italiana anche recente e rappresenta, perciò, un’altra originalità che si aggiunge all’originale scarsità di descrizioni per dare voce alle narrazioni.
Il tessuto è talmente fitto, il fiume talmente lungo, le pennellate così tante che la stessa differenza fra personaggi principali, secondari, comprimari etc. sfumano largamente. Certo, alla luce di una pur approssimativa analisi delle concordanze dovremmo ritenere Pietro il personaggio principale. Tuttavia, non lo incontriamo prima di una breve apparizione a pagina 28.
Se dovessi articolare una differenziazione fra personaggi distinguendoli in principali, secondari o comprimari sarei in grave imbarazzo. Perché è vero, ad esempio, che Vincenzinu fa solo una breve apparizione fra le pagine 103 e 104 ma la sua storia è estremamente significativa nel contesto storico. Al di là dell’esistenza più o meno reale del personaggio, il dato storico è vero: in ogni compagnia militare c’era quella figura di mascotte. Anche io ho testimonianze dirette familiari (da mio zio Bruno, colto in Grecia dall’8 settembre del ’43 e deportato, dapprima, nel campo di Metz) dell’esistenza della “mascotte”.
Naturalmente, non interessa l’esistenza più o meno reale dei personaggi perché il racconto, nonostante l’apparenza (l’ennesimo bluff dell’autore), NON è un romanzo storico.
Certo, i fatti storici ci sono, la loro presenza è pregnante e son raccontanti con dovizia ma la loro apparizione è sporadica. Sono forse il vero motore della narrazione, la corrente del fiume, ma non sono trattati come nel romanzo storico tradizionale.
In conclusione, “Un’altra gioventù” che appare come un romanzo storico familiare non è davvero né l’uno né l’altra ma, piuttosto, un ben ordito tessuto di molteplici storie a incastro, un quadro impressionista, un fiume che scorre.
[1] Pier Paolo Pasolini, “La meglio gioventù”, Einaudi, Torino
[2] Dico questo per indicare che ciò che c’è veramente “in ogni casa di italiani”, per parafrasare la quarta di copertina, non sono gli album fotografici, lettere etc. Ciò che c’è veramente in ogni casa di italiani è quello che Natalia Gisnburg avrebbe chiamato un “lessico familiare”, appunto riti, esperienze, conoscenze, racconti, tutti quelli elementi, insomma, che con Alessandro Baricco potremmo chiamare “storytelling”.
[3] “L’ideologia tedesca”
Caopitolo 3.
L’originalità formale, linguistica (capitolo 1) e strutturale (capitolo 2), del racconto rischia di mettere in secondo piano i significati del racconto che, presumibilmente, sono il vero motivo della scrittura di Piero Fabbrini. Ne indichiamo alcuni a volo d’uccello per notare, anche qui, la complessa trama, indifferentemente pensata o sentita ma più frequentemente sia pensata che sentita, che traccia l’autore.
È probabile che il primo motore del racconto sia affettivo. Forse veramente la presenza delle lettere dai vari fronti e le foto, alcune delle quali del resto riportate alla fine del libro stesso, hanno segnato con la loro presenza la memoria e l’emozione dell’autore fino al punto da muoverlo ad una narrazione. Questo aspetto c’è ed è forse il significato più apparente, quello più affettivo. Molti personaggi sono ricavati, con ogni probabilità, veramente da una storia familiare se non vissuta in prima persona (data la giovane età dell’autore) almeno certo raccontata nel contesto familiare ed intimo al quale molte volte, del resto, nel corpo del racconto stesso si fa menzione. È probabile che il primo e più originario significato di quest’opera sia qui, nell’afflato affettivo dell’autore che tale affettività intendeva forse effettivamente e prioritariamente comunicarci. Tuttavia non è certo quello più permeante per il lettore, forse interessato alla sensibilità dell’autore per empatia, stima, affetto, curiosità e perfino voyerismo. Di certo, peraltro, questo dell’affettività è un piano semantico pressoché al tutto inattingibile per il lettore.
Più interessante, invece, è il significato che la storia stessa assume nella narrazione di “Un’altra gioventù”.
Intanto, il paese in cui è ambientata la storia è Montevarchi, mai nominato ma riconoscibile attraverso le foto messe alla fine del racconto, i toponimi limitrofi ed i riferimenti precisi alla vita associata (le Stanze, il parco della rimembranza). Questa ambiguità fra latitanza e presenza ha l’ovvio scopo di ampliare i significati del racconto oltre i contesti locali, verso una dimensione più universale.
Ho usato, prima, la metafora del fiume che scorre e la storia ne rappresenta la corrente. Perché è appunto come in un fiume che la storia si presenta nel racconto. Essa è presente sempre, in maniera spesso velata ma ben percepibile fin dagli accenni alla prima guerra mondiale:
“Mario sopravvisse alla moglie solo pochi mesi, nonostante in guerra avesse dimostrato una fortissima volontà di vivere.” (pagina 19)
“Più delle ferite di guerra potè la morte della moglie (…)” (pagina 20)
“(…) e sembra’e du’ crucchi di merda e i’ vostro babbo si rivortola nella tomba che tedeschi l’hanno quasi amma’o in guerra (…)” (pagina 28)
e così via, a pagina 32 in relazione alle associazioni dei reduci di guerra, a pagine 39 nella commovente scena della stazione da cui passa il treno che trasporta la salma del milite ignoto. Sono tutte scene in cui il riemergere della prima guerra mondiale, dei suoi ricordi, conseguenze, traumi si fa permeante e la corrente del fiume della storia è percepibile senza tuttavia che la si racconti o descriva direttamente.
È una presenza, questa della storia, costante nella famiglia e nei personaggi del racconto talvolta indirettamente, attraverso i racconti, ma spesso direttamente nelle vicende dei personaggi stessi. Attraverso i protagonisti delle storie si racconta direttamente la guerra d’Etiopia e la seconda guerra mondiale ricorrendo alle epistole come fonte diretta e testimonianza di prima mano, una vera e propria fonte storica documentaria superflua per gli studi più propriamente storici data l’abbondanza di tali testimonianze ma di grande pregnanza per una storia familiare con i risvolti affettivi di cui abbiamo già accennato sopra.
Altra “grande storia” presente a tratti nel racconto, per così dire “disseminata” è la guerra civile spagnola.
“Nell’estate dell’anno 1938 partirono dal paese gli ultimi volontari per la guerra di Spagna (…)” (pagina 67)
Nessuno dei personaggi principali partecipa alla guerra di Spagna, ma la sua presenza è cospicua ed è a proposito di essa che viene raccontato l’esilio di Bixio fratello di Muzio.
Insomma, una trattazione così “narrativa” della “grande storia” è del tutto degna dell’Elsa Morante de “La Storia” (che l’autore certamente ha letto) e, per di più, tratta un periodo molto più ampio di quello narrato nel romanzo della Morante. Certamente, fatte le debite differenze dato che quello della Morante è un grande affresco e quello di Piero Fabbrini un quadro impressionista, il paragone ci sta tutto.
Un altro grande significato sparso a citazioni e frammenti in tutto il racconto è quello del consenso politico.
“(…) la voce del duce che indicava con chiarezza e senza tentennamenti la strada che gli italiani dovevano seguire (…)” (pagina 44, sottolineatura mia)
“(…) se i’ Duce ha deciso ‘osì c’è di si’uro un motivo giusto. Lui ‘un le fa le ‘ose a caso (…) i’ Duce ‘apisce ogni ‘osa (…) lasciamo fa’ ai’ Duce, che lui lo sa i’ che va fatto pe’ i’ bene della nazione (…)” (pagina 66)
“(…) il Duce aveva fatto bene a intervenire contro i comunisti Spagnoli (…)” (pagine 67)
“(…) salvare la pace che il Duce ha così abilmente costruito a Monaco (…)” (pagina 79)
“(…) il Duce il sa ben quel che se deve fa’ (…)” (pagina 80)
Solo per citarne alcuni ma potremmo continuare a lungo[1].
Il consenso al potere precostituito raccontato in “Un’altra gioventù” è riconoscibile perfino ai giorni nostri ed evidenzia una debolezza evidentemente storica e tradizionale del popolo italiano. Da un lato c’è l’inerzia dell’azione e perfino del pensiero surrogata dall’uomo forte che sa tutto e che decide tutto per il meglio, dall’altro c’è la paura di discostarsi da quello che, bene o male, è il pensiero comune.
Fra i personaggi del racconto non ci sembra di poter rintracciare un vero e proprio fascista convinto o della prima ora, ma una molteplicità di adesioni più o meno consapevoli, una forma di consenso comune e condiviso nel e dal cosiddetto “pensiero comune” di cui i personaggi sono portavoce. Il tema dell’uomo che sa tutto è una evidente riproposizione della figura del padre in chiave politica ed è a tutt’oggi una forte leva per la creazione di autorità: perché chi sa tutto ha una certa autorevolezza e da qui a passare all’autorità ed al conseguente autoritarismo il fatto è breve. L’autorità è legittima perché è fondata sulla sapienza, questo è il pensiero comune espresso dai personaggi che viene revocato in dubbio, ma assai poco convintamente, a pagina 152 in relazione all’episodio di Piazzale Loreto. È purtroppo un pensiero comune o un valore ben presente, purtroppo, anche ai giorni nostri e certo Piero Fabbrini ha presente questa circostanza. Il consenso politico si produce nel momento in cui sappiamo che qualcun altro sceglie e decide per noi; è, per così dire, una reazione “economica” alla vita associata, il maggior vantaggio con il minimo sforzo. È una reazione tranquillizzante anche rispetto alla paura di sbagliare.
Questa circostanza è ben raccontata in “Un’altra gioventù”. Tuttavia, almeno apparentemente, l’autore non s’impegna in una valutazione negativa o critica di questa circostanza ma è presumibile che il solo fatto di averla evidenziata rappresenti di per sé una critica velata.
Abbiamo già visto, del resto, che dietro ai bluff dell’autore ci sta un senso della presenza di una censura velata che è quella prodotta automaticamente dalla pervasività di un pensiero comune molto simile a quello raccontato da Piero Fabbrini nei passaggi in cui, attraverso varie voci, egli racconta il meccanismo del consenso nei sistemi totalitari.
Di passata, andrà notato il fatto che il popolo italiano non è affatto l’unico per cui valgano quei meccanismi: in un certo modo, pare che esso sia stato valido e lo sia tuttora per tutti i popoli e le nazioni che sono state sottoposte, nel corso del ventesimo secolo, ad uno qualunque dei regimi totalitaria che hanno infestato quel secolo, dalla Spagna al Portogallo ai paesi dell’est (Moldavia, Ucraina, Russia, Romania, Bulgaria etc.). L’idea è che non ci siamo ancora liberati dai totalitarismi, abbiamo anora bisogno del padre esattamente nel senso in cui in Russia, storicamente, lo Zar era chiamato familiarmente “batjuska”, “piccolo padre”.
In “Un’altra gioventù” non ci sono solo i significati “principali” che pervadono tutto il libro ed i cui “indizi” sono disseminati più o meno a macchia di leopardo, ma ci sono anche i significati che possiamo chiamare “minori” perché hanno a che fare con personaggi o racconti specifici. Per esempio la tragedia umana ed esistenziale di Elena la Statua che si uccide schiacciata dalla contraddizione fra il dovere sociale del matrimonio e l’orrore del contatto umano: essa vede l’abbandono del fidanzato come una sconfitta esistenziale e, da questa sconfitta, viene ab-battuta. Eugenio, a sua volta vittima del senso di colpa, ne sposa la sorella. Tutto l’episodio è una critica forse spietata alla convenzione matrimoniale almeno di quel mondo storico narrato nel racconto. È un’analisi esistenziale, ma è solo uno degli episodi significativi fra i molteplici raccontati.
Di sapore affine è il racconto della chiusura della ditta di famiglia e che dire della figura umanissima e commovente di Vincencinu che vive e muore chiamando la mamma o della storia di Guido da Figline.
Sono tutte storie, e ce ne sono tante, che non sono finalizzate alla definizione di un unico significato complessivo ma hanno senso di per sé, ognuna di esse potrebbe essere un racconto a parte: sono tutte le storie raccontate in quelle che più sopra ho chiamato “scatole cinesi” e che sono “minori” o “accessorie” solo perché ognuna potrebbe essere raccontata come una storia a sé e continuerebbe a mantenere il proprio senso autonomo, un senso perlopiù esistenziale ed umanissimo che potremmo chiamare “metafisico”.
“Un’altra gioventù” si muove, infine, fra alcuni significati complessivi i cui ìndici sono disseminati come tasselli in tutto racconto, e sensi “parziali” o “locali” che rappresentano significati “minori” ma comunque complessi pur se chiusi in se stessi, nelle microstorie dei personaggi “minori”. Questa oscillazione è segnalata anche dall’articolazione delle figure narranti di cui abbiamo parlato prima (narratore onniscente interno o extradiegetico o mimetico e assente come nel discorso diretto).
I significati e la struttura di “Un’altra gioventù” sono ben più articolate e complesse di quanto una qualsiasi semplice definizione di genere può indicare. Certamente, non sono definiti più che assai parzialmente dall’idea del racconto come una “biografia familiare”: “Un’altra gioventù” è ben di più grazie e, forse, nonostante le intenzioni dell’autore. “Un’altra gioventù” è un racconto se non esemplare quantomeno mirabile, molto stratificato, da poter leggere parecchie volte sempre scoprendone nuovi e diversi significati e passioni di tutti gli italiani. Infine, “Una nuova gioventù” è una storia nazionale da portare sull’isola deserta in caso di naufragio più per la varietà, originalità e stratificazione dei pensieri e delle passioni che induce nel lettore che per la memoria storica di un sempre immemore paese e dei suoi disgraziati abitanti.