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Fenomenologia della didattica a distanza

 

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In quel mare di paura, di silenzio e d’insensatezza gli insegnanti non hanno avuto la possibilità di elaborare o anche solo riflettere e pensare quelle sensazioni. Se c’è una professione nel quale la perdita di senso di quanto si va facendo, pensando, dicendo e perfino provando è micidiale, quella professione è l’insegnamento.

Perché ci voleva tempo per esplorare il mare e noi quel tempo non l’abbiamo avuto. Perché quel tempo ce lo hanno pagato brutalmente come era pagato nel diciannovesimo secolo un minatore o un operaio nella fabbrica taylorista o fordista. Non ce lo abbiamo avuto quel tempo di ragionamento, di orientamento perché ce lo hanno pagato e quindi noi ce lo siamo venduto come le puttane.

Insegnare è una professione intellettuale[4] ed è noto dalla storia dei totalitarismi dell’ultimo secolo che una professione intellettuale non si può fare in condizioni di mancanza di libertà o di libertà limitata. Il costo sociale della mancanza di libertà nelle professioni intellettuali è stato mostrato nel 1989 con il crollo del muro di Berlino. Il costo economico della mancanza di libertà nelle professioni intellettuali è visibile perfino adesso nella concorrenza con la produzione ancora fordista dell’India o della Cina, perfino nel momento in cui il meccanismo del consenso è a pieno funzionante, perfino nel momento in cui si condividono le ideologie dominanti: la servitù intellettuale è economicamente improduttiva. Per questo motivo nella Costituzione della Repubblica Italiana è scritto che: “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento” (art. 33).

Gli insegnanti non hanno avuto, nel momento dell’emergenza, la libertà di pensare. Perché non ne hanno avuto il tempo. E che lavoro intellettuale si poteva mai fare senza quella libertà? Si poteva fare una… “didattica a distanza”.

Che non è affatto quello che un insegnante deve fare.

Si può obiettare che, a fronte di una pandemia cioè di una emergenza sanitaria, si possono sospendere i diritti civili: vero ma… tutti o basta sospenderne alcuni? E perché alcuni si ed alcuni no? Ad esempio, perché si può sospendere la libertà di movimento (art. 16[5]) ma non si può sospendere il diritto all’istruzione (art. 34[6])? E ciò esattamente per lo stesso motivo: perché “La repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività (…)”. Credo sia evidente a tutti che nel momento in cui bisogna evitare assembramenti per ridurre un contagio la scuola è la prima istituzione che va chiusa e l’ultima che va ri-aperta perché i ragazzi, quando sono insieme, si attraggono come il ferro con le calamite. Non ci vogliono tante lauree per accorgersene: basta guardarli e anche i genitori se ne saranno accorti, perfino quelli che si sono più lamentati. Questo sta nell’ordine naturale delle cose[7]. Che si potesse mantenere almeno una parvenza di diritto allo studio a fronte della marea di diritti civili negati è stata una menzogna neanche troppo pietosa. Questa clamorosa bugia è stata chiamata “didattica a distanza[8]”. Chi l’ha fatta, compreso lo scrivente, si è prestato ad avvalorare questa clamorosa menzogna. Io stesso sono uno spudorato mentitore. Una cosa come una… “didattica a distanza” è un ossimoro: semplicemente perché non è possibile, secondo l’ordine naturale delle cose. Forse sbaglio nel pensare che sia semplicemente impossibile una ma se anche è possibile è certamente un fenomeno quantomeno inedito. Da quando esiste il concetto della scuola, essa è in presenza: dal Peripato alla scolastica e fino almeno a tutto il 2019 dell’era volgare. Forse è sbagliata tutta la didattica degli ultimi duemilacinquecento anni e questo è possibilissimo. Il fatto è che quello per cui gli insegnanti sono stati pagati è stata la didattica a distanza.

Ora, bisogna capirsi su cosa è “insegnamento” e qui le opinioni sono assai variegate, tutt’altro che univoche perfino fra gli addetti ai lavori; ogni insegnante ha, probabilmente, un’idea diversa di didattica e per cento insegnanti avrai almeno trecento idee didattiche perché ogni insegnante ne avrà almeno tre.

In uno Stato in cui si insegna per legge, ci dovrebbe almeno essere un’idea di didattica che è possibile come minimo intuire. Orbene, una idea di didattica nelle leggi che riguardano la scuola non c’è. O meglio; ce ne sono parecchie e parecchio contraddittorie fra loro. Intanto perché “le leggi che riguardano la scuola” è un mare magnum nel quale nessuno sa navigare: ci vorrebbe almeno una legge quadro che le riassumesse. E non c’è! E poi anche perché insegnare per legge è veramente una faccenda deplorevole.

Cosa vuol dire insegnare non è affatto chiaro per nessuno e per un motivo molto semplice che è una specie di antitesi rispetto all’insegnamento. Il fatto è che l’insegnamento è un mestiere collettivo, è una cosa che non si può fare da soli. Questo elemento della socialità non è nella testa né nelle abitudini degli insegnanti. Tutti pensano che quando fai lezione sei tu da solo davanti alla classe ed è con gli studenti che interagisci: e questa è un’altra puttanata! Una menzogna bella e buona come l’idea che fare didattica a distanza sia mantenere almeno una parvenza di diritto allo studio. L’idea solipsisitica dell’insegnamento ha avuto un suo senso anche storico almeno per tutto il diciannovesimo secolo in cui la scuola non era per tutti e non era obbligatoria. Ogni insegnante ha lavorato “da solo” finché esistevano i precettori per chi se li poteva permettere. Ed è dalla figura di precettore, perché quello c’era al momento in cui è stata fatta l’unità d’Italia, che siamo partiti. Era una puttanata anche quella se la si vede dal punto di vista dell’apprendimento (cioè del discente, dello studente) perché comunque i ragazzi apprendono da fonti molteplici ed imprevedibili e quindi perfino il precettore aveva a che fare con le cose che i ragazzi apprendevano non da lui ma dagli amici, dalle famiglie, da tutto il resto della società. E con quel sapere informale o non formale nessun precettore ha mai fatto i conti perché semplicemente non si poneva il problema.

E questo è un’altra pecca della professione intellettuale: non solo devi essere libero ma devi anche fare i conti col mondo. Questa questione dei “conti col mondo” è una faccenda con la quale gli insegnanti hanno a che fare, volenti o nolenti, consapevoli o meno. Una questione a fronte della quale perfino gli insegnanti postmoderni come noi siamo non sanno come fare al di là di norme proibizioniste (“non usare il cellulare”). Ora, anche qui, il fatto è che l’uomo è portato per natura (ancora l’aristotelico “secondo l’ordine naturale delle cose”), l’uomo è portato per natura alla conoscenza[9] ed i ragazzi studenti e discenti non possono fare a meno di imparare perché sono esseri umani. Nemmeno gli insegnanti potrebbero evitarlo seppure lo volessero (e, in molti casi, lo vorrebbero). Quello che può fare un insegnante è “controllare” l’apprendimento che vuol dire parecchie cose. Il meccanismo di “apprendimento controllato” fa la differenza fra un apprendimento formale (quello delle scuole) o non formale (quello dei contesti organizzati ma non specificamente deputati alla didattica) e informale (quello delle chiacchere da bar). Gli insegnanti della scuola pubblica si occupano solo, erroneamente secondo me, dell’apprendimento formale. Gli studenti, dal canto loro, sono interessati solo dall’apprendimento informale. Il controllo dell’apprendimento si fa anche ma non solo sulla base delle verifiche. L’idea volgare ma per niente precisa della “verifica degli apprendimenti” sono i compiti in classe o le interrogazioni: ed è un’altra puttanata! Certamente i compiti in classe e le interrogazioni sono verifiche degli apprendimenti ma non sono né gli unici né, probabilmente, i più significativi. Diciamo più genericamente ma, paradossalmente, più precisamente che la verifica degli apprendimenti si fa con i test. Questa è una cosa talmente ovvia nelle strutture didattiche del mondo che i test sono appunto proprio la modalità standard con cui vengono verificati gli apprendimenti in tutti i sistemi didattici del mondo escluso che in Italia. Non parliamo del mondo anglosassone nel quale i test sono pressoché l’unico metodo di verifica degli apprendimenti, tanto che c’è perfino una disciplina internazionale per la standardizzazione dei test: in base a questa disciplina vengono rilasciati i titoli che hanno appunto valore sovranazionale. I nostri studenti se la cavano malissimo coi test! Perché non gli abbiamo insegnato adeguatamente.

Ma c’è un altro aspetto delle verifiche degli apprendimenti che è quello che chiamerei di “back office”. Io devo poter verificare apprendimenti che io stesso ho fornito. Quindi devo avere una coscienza precisa di ciò che insegno. Forse mi posso spiegare con un esempio matematico. Se io insegno che “a” è la radice quadrata dell’ipotenusa “b” elevata al quadrato meno il cateto “c” elevato al quadrato insegno il teorema di Pitagora. Come lo verifico? Non lo posso verificare con un problema in cui fornisco, come dati, l’ipotenusa di un triangolo rettangolo ed il cateto del medesimo: perché ho insegnato una formula ma non ho insegnato ad applicarla. Ma dico di peggio: la formula del teorema di Pitagora NON E’ il teorema di Pitagora. Quando ho illustrato e spiegato la formula non ho detto nulla su Pitagora. Peggio ancora: il teorema di Pitagora NON E’ una conoscenza ma una competenza. Se spiego la formula del teorema di Pitagora ho fornito una conoscenza: se spiego Pitagora ho fornito una competenza. Al di là del dato biografico pitagorico, che un insegnante di matematica può benissimo non conoscere (e infatti quasi nessuno lo conosce), se spiego la sostanza del teorema di Pitagora, cioè il fenomeno (fisico) che descrive fornisco una competenza. Al limite, per questa competenza, non è nemmeno utile o necessario che io fornisca la conoscenza della formula perché essa dovrebbe essere facilmente derivabile dal fenomeno numerico di cui si parla così come descritto in un dialogo di Platone[10]. A quel punto, se, cioè, ho fornito la COMPETENZA pitagorica, posso verificare con un problema l’apprendimento del mio studente.

Il problema, qui, è che forniamo conoscenze ed andiamo a verificare competenze.

Una certa percentuale di insuccessi è quindi ovvia e congenita nei nostri metodi didattici.

Un esempio più radicale. Supponiamo che io voglio insegnare ai miei studenti un metodo critico in storia o in letteratura: la soluzione che noi abbiamo è insegnare tutta la storia della letteratura dell’universo e tutta la storia del mondo. Il risultato è che il mio studente saprà tutto di Dante o Pirandello, saprà a menadito la storia d’Italia ma non saprà ricavare da sé che Dante ha descritto un viaggio ultramondano perché era esule e quindi quell’inferno, purgatorio e paradiso l’ha fatto su questa terra fra Firenze, Bologna e Ravenna. Peggio mi sento se il “senso critico” lo devo insegnare rispetto all’epoca storica in cui viviamo. Per quest’ultima competenza (perché è una competenza e non una conoscenza) una sola cosa si deve sapere: tutto! E questo non è possibile insegnarlo perché nessun insegnante sa “tutto”. Che si possa insegnare una cosa come il “senso critico” è pure un’altra puttanata.

In verità, tutto questo lungo discorso serve a portare in evidenza un problema non ancora risolto nella cultura italiana: la divergenza fra competenza e conoscenza. In tutto il resto del mondo si insegnano le competenze: solo in Italia si continua a pensare che insegnare significhi una cosa come “trasmettere conoscenze” come se il sapere si potesse infondere agli studenti con la semplice imposizione delle mani. Peggio: noi pensiamo che non si diano competenze senza conoscenze. Io stesso condivido questa impostazione ma non è affatto detto che sia giusta. So perfettamente che è una posizione criticabile e fatti stanno lì a dimostrarlo: io penso, ad esempio, che Fernand Braudel sia un miglior storico di Alessandro Barbero[11].

No, io non penso che si possa dare competenza senza conoscenza MA la conoscenza si può ricavare se diamo la competenza mentre non è possibile il contrario.

A questo alludeva la ministra Azzolino con la sua metafora dell’imbuto che ha fatto ridere tutti. Ho riso anche io perché sinceramente le sue performance televisive sono imbarazzanti: sono offeso intellettualmente dal fatto che sia il mio ministro di riferimento per cui io, teoricamente, “dipendo” da lei, sono un suo “dipendente”. (In verità, non sono più “dipendente” altro che da me stesso da quando ho cinque.)

Ha fatto ridere, per lo più, perché quello che significa quella metafora dell’imbuto è che la legislazione italiana funziona ormai da parecchio tempo appunto sulla trasmissione di competenze anziché di conoscenze. Questa impostazione del ministro è del tutto in linea con il protocollo di Lisbona e col resto del mondo. Ha fatto ridere perché gli insegnanti italiani fanno, invece, perlopiù didattica fondata sulle conoscenze come da dettato della filosofia idealista liberal-fascista di Giovanni Gentile o Benedetto Croce. Questo perché noi siamo cresciuti in quel tipo di scuola lì: clerico-fascista e liberal-fascista ma comunque fascista sempre. La conoscenza in quanto tale, la conoscenza di per sé a me piace tantissimo per parecchie ragioni personali (educazione, forma mentale, anagrafica etc.): ma la conoscenza in quanto tale è una cosa fascista e basta. In questo, probabilmente, sono fascistissimo perché so un sacco di cose, tanto che qualche collega mi ha definito (di fronte alla classe, ma più o meno scherzando) “erudito”.

L’idea della conoscenza in quanto tale è tendenzialmente fascista perché è fondata su un’idea di stratificazione sociale e di articolazione di classe che, ormai, non corrisponde più alla realtà. Una delle cose sulle quali è fondata l’autorità è appunto la conoscenza. L’altra è la ricchezza. L’idea è che chi ha autorità ha il diritto di dominare perché ne sa di più: la messa in latino, ovvero la conoscenza del latino, è stata uno dei fondamenti dell’autorità clericale fino alla generazione dei miei genitori. È l’idea della conoscenza come elemento discriminatorio. Non è l’unica idea di conoscenza possibile e, anzi, spero che a questo punto sia un’idea già superata: perfino troppo. Perfino troppo perché sembra di vedere che oggi l’autorità sia fondata assai più sull’ignoranza che sulla conoscenza: però è così perché la conoscenza ha cessato di essere uno dei meccanismi (insieme alla ricchezza) di ascesa sociale. L’infima considerazione nella quale è tenuta ad oggi la conoscenza dipende proprio dal fatto che l’ascensore sociale si è fermato e la sua ovvia conseguenza è che le condizioni di vita della generazione futura si prospetta assai peggiori di quelle della generazione passata o della nostra.

Il punto chiave del clerico-fascismo è l’emulazione. L’idea è che basti sapere qualcosa per essere un insegnante: basta la laurea. Ennesima puttanata. Evidente a chi ha un qi>105. A fronte della crisi occupazionale che stiamo vivendo e che è destinata ad acuirsi grazie al COVID19 qualche amico decennale ha pensato che, a cinquanta anni suonati, poteva pure provare a fare l’insegnante e quindi candidarsi al concorso. Visti i bandi e le clausole un qi>105 mi scrive: “sono entrata in ansia pesante perché non ho mai pensato di poter fare l’insegnante o fare concorsi nella scuola. Mi faccio schifo perché poi sto male per un lavoro che andrà a persone che sono già in graduatoria” etc. Però io lo so che non è un ragionamento alla portata di tutti e che per svilupparlo ci vuole un senso etico ed una consapevolezza di se stessa e della responsabilità che ti vai ad assumere che non è accessibile a tutti. Però so anche che una insegnante così la vorrebbero tutti per i loro figli e qui siamo davanti a una bella contraddizione: la valutazione degli insegnanti!

(E quindi anche i criteri di valutazione dei concorsi.)

Ognuno vorrebbe per i propri figli un insegnante con un quoziente di intelligenza elevato ed un senso etico ammirevole! A fronte di questo, quanto conta cosa e quanto sa questa eventualmente futura insegnante? Ma davvero, se voi foste costretti a scegliere, preferireste un insegnante che sa tutto piuttosto che un insegnante che sa poco ma ha quel profilo morale, quell’etica, quella rettitudine?

(L’amica che mi ha scritto quello non sa affatto “poco”! Certo, non sa “tutto” - come nessuno! – ma sa parecchio! Ed io so che sa parecchio perché abbiamo studiato insieme ormai un quarto di secolo fa.)

Il punto chiave è l’emulazione.

Tendiamo ad insegnare in funzione della nostra esperienza di studenti. Ognuno di noi ha una sua opinione degli insegnanti che ha avuto, di quelli bravi e di quelli non bravi. Abbiamo tutti una idea di che cosa è un qualcosa come un “bravo insegnante”. Certo, poi il problema della valutazione è un’altra cosa: ma meno complicata di quanto sembra perché abbiamo una… “valutazione intuitiva” e su quella tutti siamo d’accordo. Io so di essere un bravo insegnante perché insegno da più di trent’anni e ormai sono alla seconda generazione: ho studenti che sono figli dei miei studenti e nessuno mai mi ha rinfacciato alcunché, anzi! Loro mi riconoscono e mi fermano volentieri e parlano piacevolmente meco. Certo a distanza di due decenni, con tant’acqua passata sotto i ponti, io non li riconoscerei perché il fatto è che l’insegnante ha, per i propri studenti, un significato smodatamente più cospicuo di quanto uno studente abbia per un insegnante: ed il peso di questa responsabilità, di questa consapevolezza, è un macigno che un insegnante giovane non può nemmeno immaginare. Un insegnante cambia la vita di uno studente incomparabilmente più di quanto uno studente cambi la vita di un insegnante. (Ci sono delle eccezioni per gli insegnanti di sostegno per i quali l’apporto emotivo è così cospicuo e sorprendente che ogni studente ti cambia la vita in un solo attimo.)

Sulla base di quella emulazione, molti pensano di poter fare l’insegnante. Perfino nel pensiero comune è così per cui sono considerati privilegiati perché, a fronte di un mestiere così facile, che tutti possono almeno potenzialmente fare, gli insegnanti lavorano solo diciotto ore alla settimana ed hanno tre mesi di ferie: così la vulgata. Un’altra puttanata ma, questa, facile da dimostrare: se vi pare così facile, venite a farlo voi. (Io, faccio volentieri anche l’elettricista!)

L’idea è quella della didattica frontale: uno va in una classe, parla per un’ora e questo è tutto. E invece non è niente! Perché… “parla per un’ora” vuol dire che si sbrodola addosso: se la canta e se la suona e gli studenti parlano e gridano e spippolano[12] sul cellulare. E vediamo cosa si verifica! “Ma che un cateto è la radice quadrata della differenza fra l’ipotenusa e l’altro cateto gliel’ho detto!!”… e sai chi se ne frega? A chi l’hai detto? Perché l’hai detto? Cosa ne ha inteso?

Questo modo di insegnare si chiama “didattica frontale”. Sì, è un metodo efficace: ad alcune condizioni. È efficace se si applicano delle tecniche comunicative tipiche del teatro. È efficace se si emettono suoni diaframmatici e si gesticola adeguatamente, se ci si muove nella classe. È efficace se si conoscono le tecniche retoriche: sono sufficienti anche solo quelle della didattica “scolastica”… (quella che faceva Tommaso d’Aquino). È efficace se si è attori. Infatti, un attore può pensare di essere un bravo professore perché ha le tecniche per tenere l’attenzione del pubblico per un certo tempo. Però, questo tempo sono 18 ore alla settimana per 33 settimane: c’è un attore che può recitare per 594 ore in 9 mesi? Certo, non consecutive ma ce lo voglio vedere Carmelo Bene a fare l’insegnante!

E se non lo può fare un attore rifinito, che conosce le tecniche retoriche (compresa quella dell’improvvisazione), lo può mai fare un insegnante?

Esprimo qui i miei dubbi sulle competenze e le capacità retoriche di me stesso e dei miei colleghi molto più bravi di me. E sulla base di questa perplessità faccio due osservazioni: 1) perché invece che l’insegnante non facciamo, appunto, l’attrice o l’attore? 2) la didattica frontale è una follìa bella e buona!

Non la sappiamo fare una didattica frontale, è inutile che ci ostiniamo come nella scuola che abbiamo fatto noi quando eravamo studenti. Ma se anche avessimo quella capacità, non cambia il fatto che il livello di attenzione dei nostri studenti non supera più neanche i trenta minuti. È un salto generazionale! Noi eravamo capaci (forse lo siamo ancora nonostante l’età) di avere dei tempi di attenzione di cinquanta minuti, più o meno. Gli studenti con cui abbiamo a che fare noi non superano i 20-30 minuti. Il livello di attenzione è misurabile, possiamo fare la prova in ogni classe. La prova è facile: facciamo cinquanta minuti di lezione ed impieghiamo gli ultimi dieci minuti in un test anonimo a risposta chiusa sugli argomenti che abbiamo trattato. Noteremo, mediamente (perché le eccezioni sono sempre possibili) che i contenuti dei primi 20-30 minuti saranno passati per quasi tutti; poi, qualcuno avrà colto anche i contenuti illustrati fra il trentesimo ed il quarantesimo minuto, qualcuno avrà invece ap-preso i contenuti degli ultimi dieci minuti ma avrà perduto quelli intermedi e, per contro, chi ha preso i contenuti intermedi avrà progressivamente perduto il finale.

Mediamente è così anche se l’insegnante è Carmelo Bene. Figuriamoci se non lo è!

L’idea che, fondamentalmente, la didattica efficace sia una didattica frontale è sbagliata, non è più fondata su fatti. Parimenti infondata è l’obiezione che la didattica a distanza non sia possibile perché non è una didattica frontale.

Il tentativo, che più o meno tutti abbiamo fatto, è stato quello di emulare una didattica frontale utilizzando i supporti tecnologici ed è quello a cui il ministro e chi per lei immaginava o pensava quando ha trovato la soluzione di fare didattica a distanza per (far finta di) garantire il diritto allo studio. La didattica frontale è una stronzata in presenza, figuriamoci a distanza!

E infatti l’abbiamo visto o, piuttosto, NON visto: li abbiamo, infatti, forse visti gli studenti? Chi si collegava e tornava a letto (e beati a loro!), chi c’era ma non interagiva, chi si vergognava perché non era truccata… ogni insegnante ha tutta una casistica. Come te lo dovevano significare, gli studenti, che il tentativo di replicare una didattica frontale con una didattica a distanza è fallito? Devono spiegarlo a disegni? Con un fumetto? Far finta che ha funzionato tutto è una menzogna come le altre di cui sopra. Eppure, qualcosa ha funzionato perché, come dicono in Lombardia, “piuttosto che niente è meglio piuttosto” ma quella roba lì non è il nostro lavoro.

Perché prima la didattica frontale funzionava e adesso non più? Perché funzionava la didattica per conoscenze?

Ci sono parecchi motivi, ma tutti palpabili. Basti una per tutte, che è quella più visibile: perché quando eravamo studenti noi le tecniche retoriche erano parecchio meno raffinate e pervasive. Noi guardavamo i telefilm da 40-50 minuti alla televisione: Mork e Mindy, Happy Days. I nostri figli guardano i pokemon e Amici per 15-20 minuti, per il resto del tempo fanno zapping su YouTube dove gli spiegano Hegel in 20 minuti se va bene (sennò i minuti sono due!). (A spiegare Hegel ci vogliono 20 anni!, non 20 minuti!)

I conti col mondo che non hanno fatto i precettori ma che noi dobbiamo fare sono questi. Ed è un altro motivo per cui non è più sostenibile la didattica per conoscenze: perché c’è wikipedia che ne sa più di me. Hai voglia a mettere in dubbio quello che c’è scritto: c’è scritto più di quanto tu sai e non è affatto detto che chi l’ha scritto sia particolarmente più stronzo di te. Certo, ci saranno articoli farlocchi: e allora tu mettili in dubbio! Se lo sai fare, etica vorrebbe che tu correggessi la voce a cui si fa riferimento perché Wikipedia è una enciclopedia aperta, ci possono scrivere tutti compreso te, se ne sai di più o meglio: puoi integrare o modificare quella conoscenza ma se non lo fai non sei credibile e Wikipedia ha ragione. Non hai autorevolezza. E questo è importante perché l’autorità non esiste: è un potere riconosciuto dagli altri che, in questo caso, sono i tuoi studenti e se non hai autorevolezza nessuno ti riconoscerà mai nessuna autorità, non basta più farsi chiamare “insegnante”. Per capirsi, autorità è proibire ai propri studenti di guardare Wikipedia: cosa che immediatamente faranno di nascosto non appena glielo proibirai. Proibire l’uso dei cellulari in classe non limita affatto l’uso dei cellulari. Abbiamo pure ben verificato che la stragrande maggioranza dei nostri studenti hanno usato i telefoni cellulari per collegarsi alla didattica a distanza. Ed abbiamo verificato tutti che il telefono non è sufficiente. Il gap tecnologico è questo: la presunzione e la pretesa degli studenti che si potesse fare la didattica a distanza senza computer, solo con l’uso del cellulare. Intanto perché è davvero improbabile ma, in secondo luogo, perché non abbiamo insegnato ai nostri studenti ad usare le tecnologie comprese quelle dei cellulari. Il risultato è che i nostri studenti hanno usato la tecnologia in modo passivo per quanto essa consenta, almeno fino a un certo punto, una interazione. Interazione che i nostri studenti sanno fare benissimo su Facebook o Istagramm ma non riescono nemmeno a pensare sulle piattaforme didattiche. Dobbiamo, invece, insegnare a “pensare” la tecnologia, non ad utilizzarla. L’abbiamo ben visto a dimostrazione, se ce ne fosse stato bisogno, che la semplice proibizione autoritaria (la mancanza di libertà) non è efficace didatticamente precisamente perché l’attività intellettuale non può essere svolta efficacemente in assenza di libertà e l’attività di apprendimento è proprio questo: un’attività intellettuale.

Ora, chiariamo che la scuola è… “didattica”: non è né chiesa né officina[13]. Non possiamo farne un uso didattico efficace dell’autorità; né dell’autorità di dio né di quella del padrone della fabbrica che è l’autorità del denaro. Semplicemente perché la conoscenza, la cultura, l’insegnamento non funziona così. Nel corso degli ultimi anni sono stati attribuiti alla scuola delle funzioni “sussidiarie” che non hanno nulla a che fare con le strutture base del sapere, della conoscenza e nemmeno della competenza. Certo, sono… “funzioni” che riguardano bensì i bisogni dello studente e della gioventù in genere e quindi hanno una grande ingerenza sul funzionamento dell’apprendimento. Sono perlopiù funzioni che riguardano il ben-essere degli studenti e sappiamo benissimo che il ben-essere sta alla base dell’apprendimento. Anche qui, per farmi capire, faccio un esempio. Se una mia studentessa sta in Italia con il fratello e la sorella nel periodo della pandemia e suo padre e sua madre stanno ad Amman e la nonna è morta e la madre è ricoverata all’ospedale in Giordania non è nelle migliori condizioni per collegarsi a seguire la didattica a distanza. Può darsi che lo faccia pure con suo sommo merito ma con un costo emotivo ed intellettuale che è quantomeno rilevante. Posso trovarmi di fronte, come insegnante, a una ragazza che ha subito un intervento neuropsichiatrico e quindi sta sotto psicofarmaci pesanti che se li piglio io dormo sei mesi. È ovvio che lo so da me, lo sappiamo tutti, che se i nostri studenti non hanno una condizione di ben-essere non possono avere risultati didattici ottimali o anche solo decenti. Il punto è che la scuola non può occuparsi di queste questioni: cioè, “potrebbe” ma non ha gli strumenti per farlo. A me serve quantomeno una consulenza neuropsichiatria per strutturare una didattica efficace per la ragazza giordana o sotto psicofarmaco.

Viceversa, negli ultimi anni, si è attribuito alla scuola una serie di “funzioni” che essa non ha gli strumenti per svolgere, nemmeno sul piano della conoscenza. Si demanda tutto alla scuola e questo non si può fare o, quantomeno, non si può PIU’ fare perché non è solo una fatica enorme ma anche una responsabilità schiacciante. Si deve fare l’educazione alla droga, gestire le questioni del bullismo (che sono pure penalmente rilevanti), tanto per dirne due (ma l’elenco è lungo). Certo che tutto questo è responsabilità educativa: ma io faccio l’insegnante, non il padre! Per portare un mio studente in piscina mi serve l’autorizzazione dei genitori: e certo che essi me la danno perché mi delegano a fare un qualcosa che, altrimenti, dovrebbero fare loro! La scuola non può essere e non può ridursi a livello di succedaneo di alcunché. Ci sono situazioni regionali, nel nostro paese, per cui la scuola è una alternativa alle cure mediche (neuropsichiatriche) specialistiche! Hanno ragione i neuropsichiatri: la scuola “funziona” anche in questo perché abbiamo i più bravi insegnanti del mondo! Ma è una cosa che NON deve fare la scuola e, in ogni caso, lo può fare solo se ha risorse sufficienti. Bisogna fare un sacco di cose che non dovremmo fare: come la didattica a distanza. Ma se anche le dobbiamo fare… con quali strumenti? Cosa abbiamo a disposizione? Chi l’ha detto che io ho tre computer, stampante, scanner e so gestire tre, quattro, cinque piattaforme per poter fare lezione in funzione delle necessità dello studente?

Mi obiettate che c’ho il bonus docente di cinquecento euro? E allora vi darò questa triste notizie: un computer nuovo con un sistema operativo winzozz ne costa settecento. Ma poi, anche io avrò i miei diritti alla privacy e potrò decidere che un sistema operativo windows perché è tracciabile possa non incontrare i miei gusti? Ma se voglio un Mac mi ce ne vogliono mille e duecento di euro: cosa mi dai cinquecento euro! Cos’è se non una forma di elemosina perché posso avere un computer pagando DI TASCA duecento euro invece di settecento? Il bonus è offensivo: mi si tratta come un cieco col piattino al bordo di una strada. Non è solo offensivo: è inutile! Lo sai cosa ci ho comprato col mio bonus? Siccome sono un insegnante di sostegno, ci ho comprato il DSMV per poter leggere le diagnosi: è un manuale dell’OMS che, in quanto manuale, costa una sassata[14]! E poi mi trovo pure le diagnosi fatte con l’ICD9 che è una diagnostica che non esiste più da undici anni! Ma di che si parla quando devo occuparmi di bullismo o di “funzioni” accessorie alla didattica?

Vi rendete conto che stiamo parlando di questioni mediche complesse (neuropsichiatriche se va bene), di questioni giuridiche, di un malessere sociale, della latitanza delle famiglie (non tutte per fortuna) e dell’inesistenza di tutta una serie molto lunga di servizi sociali che ci dovrebbero essere e non ci sono?

Non solo la scuola non può fare tutto questo ma NON DEVE farlo. La scuola va sgravata da queste faccende di cui lo Stato deve occuparsi, è vero e sono d’accordo, ma lo deve fare con altri mezzi PERCHE’ i mezzi necessari NON SONO mezzi didattici!

Dopodiché è certo che molti insegnanti hanno le conoscenze più che sufficienti per venire a capo e quando non ce li hanno se li procurano perché comunque l’insegnamento è una professione intellettuale per cui lo studio non spaventa nessuno (o non dovrebbe farlo). Abbiamo fatto questo negli ultimi venti anni: abbiamo tappato i buchi del sistema. Solo che il sistema se n’è approfittato e ci ha dato sempre più buchi da tappare. Noi l’abbiamo fatto, abbiamo cercato di farlo nei limiti del possibile negli ultimi venti anni: e abbiamo sbagliato!

L’abbiamo fatto perché il motivo principale per cui si fa l’insegnante è perché… “ci si sente”. Abbiamo una responsabilità verso i nostri studenti che essi ricambiano con stima e fiducia: ci vogliamo bene. Gli vogliamo bene ai nostri studenti e loro ne vogliono a noi, perfino agli insegnanti che non sono bravi. Questa è un’arma micidiale. Il principio è che un insegnante non lascerà mai un suo studente nella merda: lo aiuterà in tutti i modi possibili e immaginabili.

Uno dei motivi per cui l’incidenza di burnout nel corpo insegnante è multipla rispetto agli altri dipendenti pubblici (escluso le professioni di aiuto) è perché il rapporto didattico prevede un coinvolgimento emotivo cospicuo fin dai tempi di Socrate. E di questo “affetto” si è appropriato il potere per farne una leva di comando. È un ricatto bello e buono che, però, funziona solo in modo implicito.

All’inizio della pandemia c’è stato un marasma, una convulsione degli insegnanti che non sapevano cosa fare ma si sono sentiti la responsabilità di dover fare qualcosa e la colpa per non saperlo fare. Hanno fatto quelli che si attaccano agli specchi. Il motivo di quelle convulsioni è quel ricatto emotivo a cui è ricorso il potere (statale). Lo sapete cosa hanno fatto i miei colleghi nel resto del mondo?: la più bella (e vera!) cosa dell’universo: NIENTE! Noi abbiamo pensato tutti che non si poteva non fare niente e abbiamo quindi fatto qualunque cosa potevamo pensare. Perfino le cose che non sapevamo fare. Ci siamo arrabattati perché siamo ancora italiani e abbiamo imparato l’arte di arrangiarsi dal medioevo.

Un quarto di secolo di funzioni delegate, che non ci competevano ma erano funzioni sussidiarie che ci venivano delegate, ci avevano insegnato a fare così. Non potevamo farlo, non dovevamo farlo perché non avevano i mezzi (nemmeno psicologici) per poterlo fare. Ma l’abbiamo fatto! Abbiamo provato! Abbiamo sbagliato! Perché era l’ora (E’ l’ora!) che questo sistema, questo modo di fare, se ne andasse a puttane! Un insegnante deve insegnare non tappare i buchi della società: il che è richiesto solo in Italia, ovviamente, perché abbiamo la Costituzione più bella del modo.

Ci hanno insegnato a fare gli dei: ad avere il dono dell’ubiquità perché, talvolta, dobbiamo essere in più luoghi nello stesso momento (e la didattica a distanza ci ha dato il mezzo per poterlo fare e si chiama “multitasking”), ad avere il dono dell’onniscienza in quanto devi sapere tutto perché gli studenti e le famiglie ti chiedono di tutto. Nei primi giorni della pandemia, seguendo le indicazioni del decreto del presidente del consiglio dei ministri, ho usato i guanti con una studentessa in difficoltà che necessita del contatto fisico. Ho cercato di spiegare quel mio comportamento, forse discutibile (ma col senno di poi neanche tanto) alla mamma, ottenendone il seguente commento: “sei un insegnante!: se non sai tu come fare siamo messi bene!”. Una pandemia c’era! Non sapevano come fare gli SCIENZIATI e questa mamma si aspettava che sapessero come fare i semplici professori! Ho cercato di spiegare il mio comportamento e, a fronte di quella spiegazione (che potrebbe pure essere stata parziale, non efficace, posso non essermi spigato bene) la risposta di quella mamma è stata: “non ti perdono”. Ora, io sono pure ateo ed agnostico, non chiederei perdono a dio nemmeno se davvero esistesse: figuriamoci se poteva essere nella mia intenzione chiedere “perdono” a chicchessia! Da questa risposta ho compreso che stavo gettando parole al vento e quindi non ne abbiamo discusso oltre. Ma la cosa significativa è che questa mamma, come forse tutte le mamme, s’aspettava risposte dagli insegnanti che non son risposte umane ma di dei. Anche a lei la dinamica del potere aveva insegnato questo. Ma gli insegnanti sono persone; come tutti gli altri amano e soffrono e vivono come meglio possono e muoiono: nemmeno l’attributo dell’eternità che pure molti ci riconoscono (e per primi i nostri studenti), nemmeno l’attributo divino dell’eternità abbiamo.

Questo potrebbe non essere vero fino in fondo perché, anche dopo che saremo morti, i nostri studenti ci ricorderanno, ammesso e non concesso che vivano più di noi e tutti speriamo di si.

 

 

[4] E neanche cito Max Weber o Walter Benjamin perché è una ovvietà.

[5] “Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale (…)”

[6] “La scuola è aperta a tutti”

[7] kατά φυσιν (Aristotele, “Dell’arte poetica”, Fondazione Lorenzo Valla Mondadori, 1974, a cura di Carlo Gallavotti, pagina 2, edizione Bekker 1447, 47a-12)

[8] L’acronimo che è stato utilizzato è “DAD”: un acronimo che io mi rifiuto di usare perché mi voglio opporre alla owelliana “neolingua” ma che invece moltissimi colleghi hanno usato per abbreviare non osservando, erroneamente secondo me, che abbreviando le parole si abbrevia anche la loro semantica e quindi, in ultima istanza, perfino i pensieri.

[9] Dante, “Convivio”

[10] “Menone”

[11] A confronto siano “Il mondo attuale” di Fernad Braudel, Einaudi e “Carlo Magno: un padre per l’Europa” di Alessandro Barbero: entrambi libri stupendi, ognuno a suo modo. Ma secondo la concezione prevalente nella scuola italiana “Il mondo attuale” non è neanche un libro di storia!

[12] Termine vernacolare per “digitano compulsivamente”

[13] Montale, “Piccolo testamento”

[14] Metafora per “costa molto”