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Solo io?

Io amo la solitudine, il raccoglimento, come Petrarca racconta nel suo "De Vita Solitaria". Certamente, nessuna solitudine è assoluta; non quella del Petrarca, non la mia. La solitudine è spesso piena di gente non in senso metaforico ma fisico. È piena di odori, di sudori, di voci, di persone: la solitudine è piena di tutte le mancanze. Il che fa sì che si notino tutte le non-mancanze: un odore vero, una voce vera, una vera persona. Tutto diventa straordinario; ma io dubito che molti notino questa straordinarietà.

Non solo la solitudine è piena di gente nella forma della mancanza, che è una mancanza presente, ma è piena di pensieri: di idee, di filosofie, di poesie, di sensazioni proprie e altrui - descritte nei libri, raccontati nei video. È come dice il Petrarca: la solitudine è bellissima se è in compagnia dei libri. Viceversa è dannosa, dirompente, pericolosa. Non c'è niente da fare: siamo animali sociali perché abbiamo bisogno degli altri. Certo è un bisogno contraddittorio perché siamo bellissimi e paradossali: amiamo quanto odiamo, stiamo bene quanto male perché nessuna vita è univoca - tutto bene o tutto male. Siamo un po' e un po'. Abbiamo bisogno degli altri ma abbiamo bisogno anche della solitudine. Siamo animali sociali e contraddittori - forse è per questo che non potremmo mai essere felici di vivere o forse, invece, è proprio per questo che possiamo ben essere felici. La socialità e la solitudine non sono perenni: anche qui è un po' e un po', un'alternanza di tempi perché né il bene né il male durano in eterno. Non esiste l'eterno o forse è sempre: perché una passione, un momento, un significato sono scavati nelle nostre vite come in abissi ed ognuno ha i propri e quelli sì che sono eterni!

Io amo la solitudine, per questo vivo solo. Confesso, però, che vivo ed ho vissuto e continuerò così finché potrò. Perché ho amato, amo, faccio cose, vedo gente. Ma vivo solo. Questo mi impedisce di essere uxoricida: neanche potenziale. E mi preserva anche dall'essere ucciso, più o meno metaforicamente, d'essere schiacciato, impegnato, dis-trutto. Ma mi impedisce anche di essere co-strutto.

Però c'è un altro personaggio: si chiama Libertà. Vivo solo perché così mi va, questo ho deciso - non da solo -; il fatto di non poter decidere mi dis-turba. Per altri dieci giorni (fino almeno al 20 aprile 2021) non si può vedere nessuno o, almeno, solo a debita distanza e con le dovute precauzioni più o meno tecnologiche. E questa impossibilità della libertà dura ormai da tredici mesi con più o meno continuità. Se la libertà si esercita nelle possibilità di scelta questa libertà non ce l'abbiamo più - per adesso. Io sto bene da solo e ci sto volentieri se e perché posso scegliere se stare da solo o cercarmi compagnia. Quando questa possibilità non c'è, qualsiasi condizione è quanto mai disagevole, anche al contrario. Anche se fossimo costretti in un lebbrosario con altre mille lebbrosi soffriremo non la solitudine ma la sua mancanza, soffriremo degli odori e delle voci e della gente: questo è quello che succede nelle prigioni dove non si può mai stare soli. Perché la prigione è proprio questo per definizione: la mancanza di libertà, la im-possibilità di scegliere. E sotto la medesima chiave della im-possibilità la pandemia e l'isolamento che ne consegue sono la stessa cosa della galera. Certo diverse sotto l'aspetto della socialità e della solitudine: la pandemia è solitudine assoluta assurda, la galera è socialità assoluta assurda. Condizione non umana.

Però mi sbaglio: la nostra solitudine non è assoluta per due motivi. In primo luogo perché non tutti, anzi pochissimi esseri umani, vivono da soli - solo io? In secondo luogo perché i mezzi tecnologici consentono contatti - che tuttavia non sono contatti umani ma digitali: dove infatti sono gli odori?

Ma c'è un ultimo personaggio: la scrittura, anche "questa" scrittura. Non faccia illusione il fatto che si scrive (e si legge) in solitudine: la solitudine della letto-scrittura è un fenomeno relativamente recente - 5/6 secoli a malapena. Non si scrive "per" qualcuno ma piuttosto lo si fa "perché" c'è qualcuno. La scrittura è un fatto sociale. Uno dei fenomeni della storia contemporanea è che de-socializza la scrittura. È come parlare nel vuoto, senza eco: lanciare un sasso in uno stagno senza che produca onde. Questo vuoto è la de-socializzazione della scrittura. Io - solo io? - soffro questa de-socializzazione. Continuo imperterrito a scrivere, come dice Fortini, “come se” ci fossero occhi per leggere o orecchie per ascoltare. Io ricordo ancora, or non son trent'anni, che si potevano produrre opere collettive, parlare di letteratura, perfino litigare sulla letteratura, dibattere sulla storia. Di questi tempi, invece, nonostante io lanci sassi nello stagno, nonostante la cosa possa interessare perché l'uomo è portato per natura alla conoscenza, come dice Dante nel Convivio sulla scorta della Metafisica di Aristotele, non si riesce ad andare oltre l'idea ed il progetto, non si riesce a realizzare, a fare. Certo, si può obiettare, anche il semplice e solo parlarne è un fare - ed è vero. Ma non è lo stesso fare: come tutto il resto dei rapporti umani è un virtual-fare. Ma, ancora una volta, dove sono gli odori? L'odore anche della lingua, della volgar lingua di cui Dante, nel De Vulgari Eloquentia, dice che è come la pantera che nessuno vede ma di cui tutti sentono l'odore.

Queste solitudini, nelle forme della de-socializzazione, ci rendono più che invisibili: de-odorati! Fantasmi! Solo io?