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La fabbrica

La fabbrica

lettura eretica di “Works” di Vitaliano Trevisan

 

 

 

“Sei ancora quello della pietra e della fionda,”

(Salvatore Quasimodo)

 

 

Vitaliano Trevisan nacque il 12 dicembre 1960 in un paesino in provincia di Vicenza, Sandrigo: al 30 novembre 2020 faceva 8.207 residenti. Alla stessa data il paesino di Crespadoro, sempre in provincia di Vicenza, faceva 1.283 abitanti.

Se dovessimo guardare solo alla geografia, il percorso di vita di Vitaliano Trevisan va dal poco al meno, da un piccolo paese ad un altro più piccolo paese. Detta così sembra la vita piccina di un contadino del medioevo. Una biografia seria di Vitaliano Trevisan resta da scrivere ma non somiglierà sostanzialmente a quella di un servo della gleba: almeno, non negli ultimi vent’anni che sono quelli della sua attività letteraria e culturale fra letteratura, teatro, cinema. Sono i vent’anni a bordo dei quali la storia raccontata in “Works” si ferma: come se quella storia, che è anche una autobiografia, come se quella vita finisse lì.

è ancora troppo presto per sapere se e quanto di psicologico, di previsione e decisione sul futuro, ci sia in “Works”. è ancora troppo presto per sapere se e quanto la storia raccontata in “Works” sia davvero autobiografia, perché, fino a che punto.

Quello che invece si può fare è leggere “Works”. Quello che si può fare è leggervisi. Leggervi non l’autobiografia ma la storia. Perché è questo che “Works” descrive: la storia di quegli anni. Ed è una storia economia: la descrizione di un mondo produttivo postindustriale. Trevisan non racconta una storia ma descrive un mondo, un piccolo mondo lavorativo chissà quanto significativo davvero nell’economia della storia universale o anche solo italiana. Significativo, però, almeno per una generazione che è anche la mia: in questo senso l’autobiografia che Vitaliano Trevisan tenta in “Works” è una biografia anche mia, anche nostra. Si potrebbe dire quasi una testimonianza.

Ma c’è di più ed è ciò che fa la differenza fra storia e memoria. La storia racconta di come e perché il sistema produttivo fordista, quella della fabbrica, si disfa, si parcellizza e delocalizza diventando globalizzazione. La memoria di Trevisan descrive del come quel disfacimento e quella parcellizzazione fa a coriandoli l’anima dell’uomo, la sua sensibilità, la sua affettività, la sua vita che diventa le molte vite nelle quali ci riconosciamo fino alla solitudine che percepiamo e alla morte.

Vitaliano Trevisan è morto suicida il 7 gennaio 2022, poco più di tre mesi orsono e leggendo “Works” tutto sommato non sorprende più di tanto se si considerano le implicazioni interiori di uomini e donne che si trovano a fare i conti tutti i giorni con quel mondo produttivo lì. Un mondo di precarietà che dopo un po’ diventa anche e soprattutto esistenziale, di umiliazione e sfruttamento. Un mondo che era già visibile nella “Milano da bere” degli anni ’80, preconizzabile e preconizzato[1] nella prima metà degli anni ’90. Il visibile per tutti di quanto Trevisan viene descrivendo in “Works è la percezione e la sensazione della solitudine.

Un sistema produttivo articolato nel modo descritto in “Works” dà come conseguenza personale che sul lavoro viene caricato o sovraccaricato un apporto affettivo individuale che non so in quale altro periodo storico avrebbe potuto presentarsi. I rapporti di lavoro sono oggi emotivamente significativi quanto e più di quelle effettivamente personali di famiglia, amore, amicizia come si erano andati configurando nell’ultimo secolo dal romanticismo in poi, nel pieno dello sviluppo della fabbrica fordista e del sistema produttivo capitalista. I rapporti affettivi sono oggi assai più intensi sul lavoro di quanto lo siano a casa: molto più di quanto lo erano anche solo 30-40 anni fa.

Dico questo non solo per come sento io le cose affettive ma anche per come lo descrive “Works”. Per il protagonista del racconto sono assai più significativi, perché di questi parla, i rapporti che ha con i sui compagni di lavoro, dal grande e famoso architetto del capitolo “Enzimi” ai lattonieri de “Il mondo dall’alto”, sono emotivamente assai più significativi i rapporti che il protagonista ha con i sui compagni di lavoro che non suo padre. I rapporti personali ed affettivi che il protagonista stringe con le persone che incontra nel suo lavoro sono assai più duraturi ed intensi nella memoria del cuore di quanto siano quelli con amici, amori, affetti che quel mondo del lavoro non condividono con il protagonista: gli amici se ne fanno, gli amori finiscono e sono ricordati solo per quel tanto di rapporto di lavoro che avevano. L’amico “M” è durato finché è durata l’industria dello smercio di stupefacenti che svolgevano insieme, il matrimonio dura solo se e finché i rapporti di lavoro fra i coniugi stanno in piedi. Dico questo non solo per come lo sento io e lo descrive Trevisan ma anche per il come e perché gli operai della GKN di Firenze conducono la loro lotta. E questo è!

La fine della fabbrica non ha lasciato nessuno indenne. Non ha lasciato indenni i capitalisti che si son dovuti inventare ed organizzare nuovi sistemi per far soldi, non ha lasciato indenni gli imprenditori che si son dovuti inventare nuovi prodotti e nuovi metodi per produrli, non ha lasciato indenni gli amministratori che si son dovuti inventare modi e trucci per organizzare le produzioni, non ha lasciato indenni gli operai che si son dovuti adeguare per non morire di fame e non ha lasciati indenni gli scrittori che si son dovuti suicidare.

Perché il fatto è che la fabbrica non è affatto finita: si è anzi estesa fino al limite, non ancora estremo e perciò continuerà, dei confini geografici. Tutto è fabbrica: fabbrica di mondo. Per questo non se ne parla neanche più, perché là dove tutto è fabbrica niente più lo è e viceversa: niente è più fabbrica proprio perché e se tutto lo è. Di questo parla “Works” di Vitaliano Trevisan: della fabbrica del mondo!



[1] Per esempio da Paolo Volponi ne “Le mosche del capitale”